mercoledì 13 maggio 2009

Faccio un salto in paradiso e (forse) torno


sottotitolo: memorie di un viaggio tra canyon e messico


supai, supai... just a state of my mind.

non è il luogo, ma come ci faceva essere. ci sentivamo imprigionati nella natura possente e nelle mura di noi stessi... ci sentivamo, paradossalmente, liberi e in cammino.
nella nostra pelle bianca una storia disonesta, nei nostri occhi sgranati una volontà di riscatto e di condivisione, inizialmente disattesa dall’ostilità della tribù, poi dolcemente cullata da roland e dalla sua crew di puri ed emarginati.
ci sentivamo parte di un gruppo, ognuno di noi aveva o doveva trovare un senso a se stesso. ogni giorno. le rocce rosse e forti, antenate immobili a proteggerci e interrogarci curiose, la sabbia e la polvere sotto i piedi e nei polmoni, il silenzio ricamato da grida di bimbi e corvi il giorno, coyoti la notte. la sveglia presto e il freddo umido della mattina, il lavoro fisico e duro e incomprensibile a tratti (molti tratti) metteva a tacere le nostre menti che ribollivano di perché. e quando abbiamo smesso di chiederci e di chiedere, è arrivato lui. un uomo semplice e forte, con l’eternità negli occhi, pronti a sbocciare in uno sguardo che sa consolare e rassicurare senza parole. roland, il medicine man o sciamano che dir si voglia, è l’emblema di ciò che nel nostro intimo cercavamo tutti - qualcuno senza saperlo - e di ciò che mi fa personalmente più nostalgia adesso che sono lontanissima da supai. il contatto con la terra, l’immersione quotidiana negli elementi, non contemplativa ma fattiva e utile come creare canali per irrigare i campi del villaggio. la capacità di ascolto, la voglia di giocare, la curiosità del conoscere il prossimo. lo stupore del bambino e la forza del padre, non solo dei suoi 11 figli ma di tutta la tribù... e di tutti noi. le lacrime pure di chi vede e combatte contro l’oscuramento di valori e di tradizioni, la crudele consapevolezza di essere rimasto quasi solo a ravvivare la fiamma dell’antico spirito, che sembrava avesse chiamato noi venti malcapitati a ricordare la sua bellezza a quel popolo sperso. buffo scherzo della storia, l’uomo bianco voleva di nuovo insegnare qualcosa ai poveri nativi... stavolta, la loro grandezza. proprio quella che gli abbiamo strappato secoli fa, forse per invidia e per avidità di potere e controllo. la stessa avidità che si leggeva nelle sillabe balbettate di byron, e a piccoli tratti incoscienti nelle parole danzanti di ken. la stessa che aleggia qui ora, nel mondo civilizzato della macchine e delle spiegazioni a tutto, in cui il grande spirito della natura piange come piangeva roland al pensiero della sua gente con l’infinito nell’anima e chili di junk food nel ventre. laggiù eravamo nudi, vergini in un paradiso corrotto ma ancora brillante. le nostre anime non potevano nascondersi, e sono emerse nella loro forma originaria con lo svolgersi degli eventi... il gruppo si è spezzato, complice una pietra e una sventurata martire, e ognuno ha mostrato finalmente la propria vera faccia. non un belvedere, certo, ma anche quei momenti hanno avuto un senso, molto senso nella loro verità. e mi stupivo nell’osservare come proprio i più votati al sacrificio espiatorio tramite il lavoro obbediente, ottuso e autolesionista, si rivelavano i più insensibili davanti al dolore di una compagna. stupenda, cruda lezione di umanità per me, che mi ha colpito quasi quanto la pietra ha fatto male a marilù. ma le separazioni hanno senso anche, forse soprattutto, nel loro potere di definire tramite il contrasto. in pochissimo tempo venti semisconosciuti racchiusi in una convivenza coatta hanno formato densità e opposizioni, come in una comunità storicamente compatta. supai è stato un acceleratore di verità. con la stessa forza dell’acqua che ha sfigurato le sue cascate ci ha tolto le maschere uno ad uno, rimandandoci a casa diversi.
non a caso lo scioglimento della maschera è uno dei passi dell’esperienza nella capanna, sweat lodge o temazcal dei cugini maya... morire e rinascere con occhi vergini, gli spiriti nelle pietre a guidarci nella scoperta di nuovi passi da percorrere, magari a piedi scalzi per dissetare l’esigenza fortissima di contatto con lei, con la madre. solo a scrivere di tutto questo il mio corpo urla e si lacera nel dover sottostare a questa incolmabile mancanza. e mi ascolto, e mi conosco: quella che doveva essere la mia casa diventerà solo un nido per spiccare di nuovo, presto, il volo verso vibrazioni nutrienti e vere come quelle che mi hanno penetrato ogni istante a supai.

la discesa al canyon... la luna, i nostri passi.
la paura e l’eccitazione, l’incosciente e inevitabile fede.
raffaella, e carl, sono i compagni di questa mia avventura intensissima e personale. la prima da subito... il secondo, solo reatroattivamente. solo pochi giorni fa, col corpo rinchiuso in un internet café di genova brignole, ho conosciuto quello che carl visse pochi istanti prima di scendere al canyon. eravamo vicini, ed eravamo in contrasto... eppure lui viveva esattamente le mie emozioni. con un piccolo inconsapevole tranello, mi ha spinto a fare ciò che lui stesso aveva paura di fare: camminare. alla sua paura ha risposto con un entusiasmo trascinante e quasi perentorio, we have to go, soon... e così, presa la mano di raffaella, ho iniziato a scendere tra le rocce. con i piedi che tremavano, e il cuore che obbediva a una incompresa spinta ad aprirsi.. sapeva già, forse, che avrebbe dovuto fare spazio dentro di sè per accogliere tutta quella immensità.

del messico ho nostalgia, ma è una sentimento diverso. (questo viaggio mi sta muovendo dentro diversi sentimenti, eheh cara psycompagna). di quel luogo ho percepito la forza della natura, ma anche la mescolanza già avvenuta, più o meno felicemente, tra spirito e modernità. playa del carmen brulicava di mondanità e cocktail, ma le tradizioni pur costrette in souvenir ammassati facevano sentire la loro vibrazione, forte e dolce... ho avvertito uno spirito più accomodante, incline ai compromessi e non ribelle come quello dell’havasuworld. la fornace frettolosa di chichen itza ha solo spruzzato la mia coscienza, mentre la cerimonia maya, pur turistica, e i meravigliosi cenote di acqua madre mi hanno accarezzato profondamente. così anche il vento costante di tulum, che non dava pace alla mia anima ormai malinconica per l’imminente abbandono. ma del messico mi ha colpito la gente, o almeno la loro superficie... (che però, rispecchia l’essenza?). persone con l’allegria nel codice genetico, con la musica sempre addosso, per strada, mentre lavora sul taxi, mentre qualcuno con la mascherina della paura faceva il suo mestiere molti altri ballavano, incuranti delle onde e del supposto pericolo.

ma vogliamo parlare delle distese infinite dell’arizona? delle immensità di boschi, ma prima ancora cactus e poi le rocce cariche di segreti di sedona? lunghe pause tra una giostra e l’altra, ammorbidivano le nostre anime scosse.
sedona era la città sacra degli apache, forse loro luogo d’origine. accoglieva per essere visitata e per pregare... non per mettervi radici. mi sono sentita molto vicina all’essenza di sedona, quando l’ho sfiorata pur immersa nel coloratissimo consumismo new age.
ora so che luoghi meno dolorosi per me esistono. il problema è arrivarci ancora, soprattutto senza fuggire ancora.