martedì 27 aprile 2010

Avatar a Pai, Thailandia

Pasqua 2010. A Pai, un piccolo paese rurale della Thailandia ai confini con la Birmania, si sta svolgendo una cerimonia buddista per celebrare l’iniziazione di alcuni giovani monaci. A Piacenza, come in molte altre città italiane, la messa pasquale raccoglie fedeli cattolici intorno alla memoria dell’agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo. Il collegamento tra le due realtà avviene con un semplice messaggio su Facebook tra due amici che si raccontano le proprie giornate di Pasqua. Io, a Pai, turista bianca catapultata dall’altra parte del mondo, vengo invitata, accolta e immersa nella cerimonia buddista. Il mio amico a Piacenza, in chiesa, ascolta il lamento di una donna fuggita da un’altra chiesa della città perché piena di ecuadoregni. Bando ai giudizi di merito e di levatura morale: ogni popolo e ogni persona ha la sua storia, le sue paure, i suoi interessi e il suo livello di evoluzione umana, che è ben altra cosa rispetto al PIL. Ma ciò su cui rifletto è: nello stesso istante, a migliaia di km di distanza, accadono due eventi religiosi specularmente opposti. E sono felice di avere volato 12 ore per vedere con i miei occhi e sentire nel cuore questa speciale sensazione di “accoglienza”. E’ la prima volta che tocco l’Oriente, e ascolto la sua energia Yin, avvolgente, leggera. Allargo i miei orizzonti e mi accorgo di essere percepita, nel sistema in cui sono inserita, come una banconota ambulante. Ma allo stesso modo mi è capitato di esserlo in altri luoghi, stranieri ma occidentali. E mai sono stata accolta con tanta semplicità, innocenza, curiosità silenziosa. È stato un ragazzino a invitarmi a partecipare alla preghiera, mentre osservavo in disparte la comunità del villaggio assorta nei mantra recitati come una melodia dai monaci. Il tempio, ricchissimo di colori e semplici ornamenti, era aperto ai lati e lasciava ampia la visuale verso le montagne sopite nell’aria già caldissima. Sul soffitto era sistemata una rete di grossi fili bianchi di cotone, e ogni metro quadro circa ne scendeva uno verso terra. Ogni persona, scalza, aveva poggiato un filo in testa, a simboleggiare la fratellanza universale e l’appartenenza di tutti gli esseri umani a “un unico organismo vivente”. I fili a loro volta erano collegati all’altare su cui sorrideva un maestoso Buddha dorato. Ero stupefatta e commossa da una tale immagine di condivisione e primordiale evidenza: siamo tutti Uno, siamo Dio e pulsiamo insieme. Il ragazzino mi ha indicato, a gesti, di avvicinarmi a loro e prendere anche io il mio filo. L’ho fatto, ho sorriso, e per un istante ho percepito l’essenza della mia, della loro vita. A migliaia di km di distanza dalla mia terra, ho provato l’abbraccio della Grande Madre che con il suo cordone universale mi accoglieva alla vita, insieme a tanti altri compagni di viaggio nati sotto un cielo così diverso dal mio.

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